Dal punto di vista fisiologico i processi di cambiamento coinvolgono principalmente due strutture della corteccia cerebrale: il sistema dorsale e quello ventrale. Si impara in modo lento e sequenziale con il lobo dorsale (corteccia parietale e frontale sede di funzioni come coscienza, autocontrollo e autosservazione) mentre attraverso il lobo ventrale (corteccia orbitofrontale), avvengono tutti i processi automatizzati, che non richiedono l’intervento della coscienza e che avvengono in modo molto rapido (se pur non privo di errori). Questa altalena dinamica neuronale si mantiene nel tempo con “ondulazioni” costanti tra “spontaneità” e capacità critica e analitica, generando i nostri comportamenti che spesso risentono di queste “contraddizioni interne”. Curiosità, intenzionalità e piacere sono il carburante per alimentare la spinta al cambiamento, in particolare grazie alla dopamina, il neurotrasmettitore elitario che ci permette di acquisire nuovi comportamenti attivando il circuito della ricompensa. Il nostro cervello ama la dopamina e la cercherà. Essa ci fa sentire concentrati e positivi. La mancanza di dopamina causa, al contrario, una serie di problemi: riduce il nostro desiderio di fare qualcosa di significativo e ha un impatto negativo sulla nostra capacità di pensare in modo creativo. Ecco perché, affinché il cambiamento diventi “un’abitudine”, è fondamentale che le persone vengano incluse nei processi in modo costruttivo e che li facciano propri per creare “circuiti virtuosi” per sé e per l’organizzazione. La nostra mente ama avere tutto sotto controllo con le informazioni necessarie per poter prevenire le minacce e prendere decisioni rapidamente. L’incertezza genera nel nostro cervello una sorta di messaggio di errore e uno stato di allerta e difesa immediato che ci fa ricorrere ai meccanismi di difesa più primitivi: attacco, fuga e congelamento. Si attiva, quindi, il circuito della minaccia attraverso gli ormoni dello stress, cortisolo e adrenalina, che ci focalizza sul pericolo, concentra le energie per la possibile difesa e riduce le risorse cognitive ed emotive a disposizione per fare tutto il resto, tra cui sicuramente accogliere il cambiamento e l’innovazione. L’incertezza distorce anche la nostra visione delle minacce e può farle sembrare peggiori di quello che sono in realtà. Quando ci sentiamo insicuri, abbiamo maggiori probabilità di aspettarci il peggio e questo rende l’incertezza ancora più stressante. Abbiamo bisogno di un “contenitore” che conservi ciò che ci è conosciuto e familiare e di creare schemi routinari che non richiedono più l’uso della coscienza vigile. Puntare alla trasformazione effettiva, non quella millantata, per il nostro sistema nervoso è, quindi, spesso un onere che non siamo disposti ad affrontare e che richiede grande disciplina. Ecco perché, per esempio, tutto ciò che è ricorsivo e seriale diventa fisiologicamente necessario per rassicurare e aiutare l’individuo a costruire “il frame” nel quale inserirsi oltre a ridurre la necessità di vigilanza e quindi di energia mentale. Ed ecco perché è così difficile promuovere il cambiamento nelle organizzazioni e perché impariamo ciò che siamo già predisposti ad imparare, in quanto coerente con le strutture già presenti, con quello che già conosciamo. In parole povere cambiamo solo se serve e non costa fatica perché questa è la predisposizione del nostro cervello se non si fa qualcosa per contrastarla. Sottovalutare queste dimensioni implicite del cambiamento che generano bias e distorsione cognitiva, la maggior parte delle volte non consapevole, può rendere inutili tutti i nostri sforzi razionali di proporre il cambiamento alle persone.